Concessione di servizi: ma siamo sicuri che costituiscano contratti di PPP?
Le Linee Guida Anac n. 9 recentemente pubblicate sul portale dell’Authority hanno perso l’occasione per fare chiarezza, o perlomeno per fornir spunti fondati sull’acume, su quella che pare una vera e propria stranezza nella sistematica del Codice dei contratti.
Il riferimento è alla distinzione (o all’assimilazione) tra concessione di servizi e Partenariato Pubblico Privato (PPP).
Il dubbio nasce dalla lettura dell’ottavo comma dell’art. 180, ove si legge: “Nella tipologia dei contratti di cui al comma 1 (PPP n.d.r.) rientrano la finanza di progetto, la concessione di costruzione e gestione, la concessione di servizi, la locazione finanziaria di opere pubbliche, il contratto di disponibilità e qualunque altra procedura di realizzazione in partenariato di opere o servizi che presentino le caratteristiche di cui ai commi precedenti“.
Ebbene, già scorrendo velocemente l’indice del Codice, si evince che il legislatore ha inteso suddividere in distinte parti gli istituti in analisi, riservando la parte III alle concessioni, la parte IV al Partenariato Pubblico Privato.
Perché mai questo richiamo ibridante tra “parti” distinte aventi il carattere dell’autonomia?
Leggendo le definizioni contenute nell’articolo 3 ci si accorge che qualcosa non fila, sotto il profilo logico s’intende:
vv) «concessione di servizi», un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più stazioni appaltanti affidano a uno o più operatori economici la fornitura e la gestione di servizi diversi dall’esecuzione di lavori di cui alla lettera ll) riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione dei servizi;
eee) «contratto di partenariato pubblico privato», il contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto con il quale una o più stazioni appaltanti conferiscono a uno o più operatori economici per un periodo determinato in funzione della durata dell’ammortamento dell’investimento o delle modalità di finanziamento fissate, un complesso di attività consistenti nella realizzazione, trasformazione, manutenzione e gestione operativa di un’opera in cambio della sua disponibilità, o del suo sfruttamento economico, o della fornitura di un servizio connessa all’utilizzo dell’opera stessa, con assunzione di rischio secondo modalità individuate nel contratto, da parte dell’operatore.
Da una lettura piana delle definizioni riportate emerge in modo solare che le fondamenta di un contratto di PPP risiedono nel concetto di “opera”; nella sua realizzazione, trasformazione, manutenzione e gestione operativa. La fornitura di un servizio è indissolubilmente legata all’utilizzo dell’opera stessa, e quindi subordinata alla sua esistenza.
E allora, che cos’è un opera?
È d’uopo allora tornare al già citato art. 3 comma 1, lett. pp), il quale fornisce la definizione di “opera” qualificandola come “il risultato di un insieme di lavori, che di per sé esplichi una funzione economica o tecnica. Le opere comprendono sia quelle che sono il risultato di un insieme di lavori edilizi o di genio civile, sia quelle difesa e di presidio ambientale, di presidio agronomico e forestale, paesaggistica e di ingegneria naturalistica”.
Se così stanno le cose, passino le concessioni di lavori, ma che cosa ci azzecca una concessione di servizi con la realizzazione di un’opera?
La risposta pare condurre ad un inesorabile “nulla”.
E, sotto un profilo più pragmatico, su che cosa si fonda il partenariato nel caso di concessione di servizi?
Quest’ultima è nella sostanza un contratto di appalto, con una sola differenza, ricavabile dal combinato disposto dei considerando 18 e 68 della direttiva DIRETTIVA 2014/23/UE del parlamento Europeo e del Consiglio: “La caratteristica principale di una concessione, ossia il diritto di gestire un lavoro o un servizio, implica sempre il trasferimento al concessionario di un rischio operativo di natura economica che comporta la possibilità di non riuscire a recuperare gli investimenti effettuati e i costi sostenuti per realizzare i lavori o i servizi aggiudicati in condizioni operative normali, e dove il concessionario assume responsabilità e rischi tradizionalmente assunti dalle amministrazioni aggiudicatrici e dagli enti aggiudicatori e rientranti di norma nell’ambito di competenza di queste ultime.
Il riferimento è quindi al tradizionale schema trilaterale amministrazione, concessionario, utenti, ed al sistema di remunerazione secondo il quale la maggior parte dei ricavi della gestione deve pervenire da questi ultimi.
La risposta pare condurre, ancora una volta, ad un inesorabile ” sul nulla”, se non a patto di volerne svilire ai minimi termini l’essenza, s’intende.
E allora ci viene alla mente quanto letto sul Corriere quando il Codice era ancora in fasce: “Imprecisioni, sviste e incongruenze di un funzionario sciatto (e anonimo) stravolgono una norma fondamentale. In Gazzetta Ufficiale è stato pubblicato un comunicato di rettifica: 181 errori nei 220 articoli del nuovo Codice degli appalti” (Gian Antonio Stella).
Ci viene spontaneo chiederci: non è che gli errori erano allora 182, ed il richiamo alle concessioni di servizi nell’ambito dell’art. 180 rappresenta un mero refuso, uno dei tanti?
Cesare Pavese ebbe a sostenere che “fra gli errori ci sono quelli che puzzano di fogna, e quelli che odorano di bucato”. Pare che serva un idraulico per aggiustare una lavatrice guasta…